GIUSTIZIA TRANSIZIONALE E POLITICA DELLA MEMORIA NELLA EX-JUGOSLAVIA
Dopo più di vent’anni dalla fine delle guerre che hanno portato alla dissoluzione dell’ex-Jugoslavia i Paesi dei Balcani occidentali devono ancora affrontare la pesante eredità del proprio violento passato. Nell’intera regione assistiamo a un evento che non esito a definire una vera e propria “guerra tra verità”. Ogni Paese difende la sua versione storica in contraddizione e in opposizione a quella dei vicini, innescando così una dinamica fortemente divisiva sia a livello di narrazione che sociale che di relazione tra gli Stati. Tali supposte verità, infatti, vengono a loro volta strumentalizzate ed amplificate alimentando sentimenti nazionalisti che infiammano le tensioni e rischiano di sfociare in nuovi conflitti. Il caso bosniaco risulta particolarmente esemplare in quanto, di fatto, coesistono tre verità ufficiali contrastanti sui fatti accaduti dal ‘92 al ‘95 (quelle bosgnacca, croata e serba) e ciò comporta effetti devastanti nelle relazioni tra le comunità a partire dal sistema educativo che propugna un modello di scuole separate su base etnica e che, di fatto, normalizza una forma di ghettizzazione degli spazi sociali. Per quanto riguarda il livello regionale invece, la recente notizia di un possibile scambio territoriale tra Serbia e Kosovo e la decisione di quest’ultimo di imporre dei dazi al 100% sulle merci provenienti dalla Serbia dimostra quanto sia ancora fortemente radicata l’idea che la convivenza pacifica passi attraverso la creazione di Stati monoetnici e lo sradicamento di popolazioni più che attraverso la realizzazione di adeguate misure di protezione e integrazione delle varie minoranze.
Più il processo di inclusione in Europa si avvicina e maggiormente si evidenzia come necessario un percorso di riesame critico e oggettivo della storia che permetta di contrastare le ideologie nazionaliste generatrici dei conflitti e che a tutt’oggi costituiscono il fondamento, neppur troppo dissimulato, per costruire il consenso politico.
Durante il processo di allargamento dei confini l’UE, per fronteggiare i vari problemi scaturiti dai conflitti nell’ex-Jugoslavia, ha deciso di aggiungere una nuova importante dimensione alla condizionalità europea espandendo i criteri di Copenaghen alla piena cooperazione con l’ICTY. In buona sostanza ciò vuol significare che, all’interno dell’ampia gamma di meccanismi di giustizia transizionale, l’UE ha scelto di dare priorità alla dimensione retributiva trascurando altri aspetti e procedure che di contro, come dimostrato in precedenti esperienze di transizione, possono rivestire un ruolo complementare fondamentale al lavoro delle corti e dei tribunali nel quadro globale.
La visione di fondo di tale strategia, basata sulle precedenti esperienze dei Tribunali di Tokyo e Norimberga, è stata quella secondo cui il passaggio in giudizio della verità sui crimini e i responsabili, resa possibile dai processi imparziali internazionali, sfida le ideologie collettive e fa da deterrente per futuri conflitti facilitando così la riconciliazione e il superamento delle divisioni etniche (Alvarez, 1999).
Dopo più di un decennio dalla creazione dell’ICTY e di enfasi posta sulla condizionalità dell’UE fondata sulla piena cooperazione con il Tribunale, molti studiosi e ricercatori affermano che la politica europea ha fallito nel raggiungimento degli obiettivi dichiarati di riconciliazione e cooperazione transfrontaliera nella regione. Per questo motivo è urgente una messa a punto dell’agenda di condizionalità che incorpori aspetti precedentemente marginalizzati e che adotti un approccio di tipo olistico e multidimensionale soprattutto nel momento in cui si è raggiunta la consapevolezza che la pressione esercitata dall’UE perderà di vigore ed efficacia allorquando i Paesi ora candidati saranno divenuti Paesi membri.
A tal proposito, nell’ultimo decennio, è emersa una nuova forma di giustizia ‘dal basso ’ guidata interamente dalla società civile che ha saputo cogliere molti di quegli aspetti e meccanismi fino ad ora trascurati. L’iniziativa propone la creazione di una commissione di verità a carattere regionale (RECOM) che permetterebbe la ricostruzione di una storia comune da cui poter ripartire per un percorso di riconciliazione nei Balcani.
A fronte della mancanza di volontà politica nella regione però l’appoggio dell’UE sarà senza dubbio decisivo per la sua realizzazione e a sua volta essa ne trarrebbe beneficio in quanto rappresenterebbe l’occasione per correggere e completare un approccio dimostratosi finora limitato nella sua azione e nei suoi effetti, soprattutto per quanto riguarda l’impatto dal punto di vista sociale.
Trasferendo la guida del processo di giustizia alla società civile, inoltre, verrebbe superata la dinamica di tipo top-down che fino ad ora ha contraddistinto la politica di giustizia nei Balcani occidentali e che non ha permesso alla società civile domestica di potersi fare essa stessa soggetto portatrice del cambiamento.